18 settembre 2011

UOMINI VERTICALI (#1)



Piccola premessa.
Nelle osterie -anche in questa virtuale- non si parla solo di vino, cibo, musica, donne e trattori.
Mi piace pensare che anche quando saltan fuori questi argomenti, lo si faccia da un punto di vista poetico e romantico, nonostante siano due termini oggi abusati e sfruttati così tanto da arrivarci quasi svuotati del loro significato originale. In questa nicchia informatica, vorrei provare a rivalutarli e quantomeno a considerare anche questa visione sentimentale della vita.
Nelle osterie si parla anche di donne e uomini. Se ne parla con piacere e rispetto quando si tratta di persone di valore, mentre spesso si preferisce un silenzio serio invece di commentare nei dettagli quando l'essere umano offre il peggio.


Non sono assolutamente un patito dell'alpinismo, mi piace la montagna ma non riesco a ricevere quello stimolo alla sfida che anima molto spesso gli scalatori. Sarà che, dopo aver lasciato legamenti e menischi nello sport, in me l'istinto di conservazione prevale su quello agonistico, sarà perchè in cima magari ci posso arrivare anche con una stradina meno complicata, ma non mi frigge dentro il fuoco della competizione con la natura. Non c'entra sempre la pigrizia nell'essere contemplativi: davanti alle grandi montagne come al grande mare, spalanco gli occhi ma metaforicamente abbasso lo sguardo con timoroso rispetto; sono troppo più grandi di me e il loro infinito mi accende l'immaginazione e la voglia di conoscere le esperienze di altri uomini, diversi da me.

Pochi giorni fa è morto Walter Bonatti, 81 anni, tra gli alpinisti storici del nostro pianeta, padre di un alpinismo estremo nei mezzi e rispettoso nelle scelte, non furioso e spesso spettacolarizzato come fanno oggi alcuni sfidanti temerari con la telecamera.
Quando qualcuno muore si dicono e scrivono sempre le cose belle, ma in questo caso, leggendo un po' ovunque, ho avuto la sensazione che di cose brutte legate a Walter Bonatti fosse difficile scovarne nelle sue molte imprese, dense di pericolo e tragedia, come nel "caso K2" del 1954, oggetto di infinite discussioni e libri scritti negli anni (di Bonatti "K2 storia di un caso").
In questi giorni tutti i commentatori, i giornalisti e gli amici, hanno raccontato un uomo, spesso un vero sopravvissuto, un alpinista di grande equilibrio determinato, animato da una passione da adolescente anche in età avanzata.
Il rispetto verso la montagna, la voglia di essere solo con essa e la ricerca dei limiti nella sfida sono stati il faro ma anche la coscienza del suo ardire per salire più in alto.
Il commento più bello che ho letto è quello di Gianni Mura, oggi nella sua rubrica fissa nelle pagine dello sport di Repubblica (Sette giorni di cattivi pensieri, voto 10 con rispetto). Il giornalista racconta che il giorno prima della morte del famoso alpinista, è franata una parte del Dru (Aiuguilles du Dru), nome della parete ovest del Monte Bianco e luogo di una importante scalata compiuta proprio da Bonatti nel 1955.
La visione poetica e romantica di Mura vede la frana di questa parete come un inchino della montagna a Walter Bonatti.
Mi è piaciuto molto questo pensiero, una specie di onore delle armi in una "guerra" pacifica tra montagna e uomo, tra elementi della natura che hanno saputo convivere, rispettarsi e generare emozioni.


15 settembre 2011

IL SAPORE DELLE PAROLE BASE



"Ieri sera ho bevuto un vino toscano, buonissimo."
"Che vino era? Toscano di dove?"
"Ah non so, ma era toscano, buono, del resto la toscana..."

"Ieri sera ho mangiato un salmone, buonissimo."
"Che salmone era? Provenienza?"
"Non saprei, era salmone affumicato, buono, si sa il salmone..."

"Ieri sera ho mangiato un prosciutto crudo al coltello."
"Che prosciutto era? Di che zona?"
"Boh, era prosciutto, quello crudo, al coltello poi è buonissimo..."

Potrei andare avanti con altri esempi.
Perchè spesso ci si accontenta del sapore delle parole base senza andare a fondo, scoprire, curiosare un po' di più?
Non metto in dubbio che il vino, il salmone e il prosciutto non fossero buoni, anzi. Dando per assodato che fossero buonissimi, non informarsi sul nome, tipo e provenienza è di certo una piccola lacuna, ma anche un'occasione mancata.
Perchè è vero che le parole base ci danno una descrizione organolettica e quindi olfattiva e di gusto, ma non sono che il titolo, la superficie. Sono la base, appunto, ma poi c'è tutta la costruzione.
Temo che a volte alcuni prodotti diventino come dei brand e che il loro nome base sia sufficiente a garantirne la qualità. Cioè che dire vino toscano sia sufficiente, si sa com'è buono il vino toscano, così come mangiare salmone, che costa pure caro quindi è più buono.
Andando più nello specifico capita anche con le tipologie di vino. Del tipo: "ieri ho bevuto un brunello" "che brunello era? annata?" "boh, ma era brunello, (quindi) buono". Senza fare i fissati enomaniaci che di un vino conoscono ogni dettaglio, compreso il nome del grafico che ha creato l'etichetta.
Però informarsi con maggior profondità, permette anche di fissare meglio un sapore nella mente e potere successivamente fare il raffronto con altri prodotti uguali per nome base, ma differenti per provenienza o tipo di produzione. Vale per il vino, il formaggio, il prosciutto e tantissimo altro, quasi tutto.

Non servono molto tempo e memoria per approfondire la propria cultura enogastronomica e magari può diventare lo stimolo per far crescere una nuova passione.
Senza diventare maniaci di nulla, solo un po' più consapevoli.

6 settembre 2011

OSTE, VOLUME (#2)


C'è stato un temporale stasera.
Poi ha smesso e dalle nuvole gonfie, grigione e bianche, squarciava fuori un po' di azzurro, il tutto mentre nella parte bassa dello "schermo" il sole tramontava verso il Monte Rosa, con una tonalità arancione più densa del solito, meno pastello, forse che per uscire il sole si era dovuto battere duramente.
In tutto questo lento scorrere di immagini e tempo ho ascoltato questo disco, messo quando ancora stava piovendo e mi è sembrato perfetto. Perchè racchiude dentro di sè una malinconia grigia, atmosfere claustrofofiche da tregenda, odori di pioggia incessante, ma sotto scorza poi alla fine nella voce di Beth Gibbons sgomita anche una solarità sorridente, come uno squarcio di luce calda che fa stare bene.
Disco che ancora oggi sembra scritto nel futuro.
Piaciuto sempre molto.